ciclo di incontri - Marzo 1999
Quaderno n. 73
Dopo Auschwitz. Domande sulla letteratura, la storia, la filosofia, la teologia
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L’oblio del ricordo: Testimoniare la Shoah.

Federica Sossi


C’è una storia che viene raccontata da più persone, in vari luoghi.

Una storia hassidica, divertente, ma soprattutto molto indicativa rispetto a quale è stata la funzione di raccontare storie all’interno del movimento hassidico. Secondo l’indicazione che ne dà Scholem, il fatto di raccontare storie assunse, nella fase finale di tale movimento, quasi il significato di un nuovo valore religioso.

Citerò questa storia da una delle Celebrazioni di Elie Wiesel, testimone bambino dell’orrore di Auschwitz, ma essa viene raccontata anche da Scholem, nelle Grandi correnti della mistica ebraica, che l’aveva intesa, a sua volta, da Agnon.

  “Quando il grande Rabbi Israel Baal Shem-Tov vedeva annunciarsi una disgrazia per il popolo ebraico, aveva come abitudine di raccogliersi in un certo posto nel bosco; là, accendeva il fuoco, recitava una preghiera e il miracolo si compiva, revocando la disgrazia.

  In seguito, quando il suo discepolo, il celebre Maggìd di Meseritz, doveva appellarsi al cielo per le stesse ragioni, si recava nello stesso posto nel bosco e diceva: ‘Signore dell’universo, ascolta. Non so come accendere il fuoco, ma sono ancora capace di recitare la preghiera’. E il miracolo si compiva.

  In seguito, il Rabbi Moshè Leib di Sassow, per salvare il suo popolo, andava anche lui nel bosco e diceva: ‘Non so accendere il fuoco, ma so dov’è il luogo, e ciò dovrebbe bastare’. E ciò bastava: anche in questo caso il miracolo si compiva.

  Poi toccò a Rabbi Israel di Rischin schivare la minaccia. Seduto in poltrona prendeva la propria testa tra le mani e parlava a Dio: ‘Sono incapace di accendere il fuoco, non conosco la preghiera, e non posso nemmeno trovare il posto nel bosco. Tutto ciò che so fare, è di raccontare questa storia. E ciò dovrebbe bastare’. E ciò bastava”

  Questa storia dice qualcosa non solo rispetto al rapporto tra narrazione e memoria ma anche tra narrazione e oblio; il raccontare storie, comunque, se ricorda che qualcosa è stato obliato,  riesce ancora a contenerlo in sé, a integrarlo nella narrazione. Quest’ultima, diviene allora la memoria per eccellenza, capace di svolgere da sola la funzione che prima era svolta da ciò che ora è stato obliato.

Non sappiamo più, abbiamo obliato come si accende il fuoco, non conosciamo più, abbiamo dimenticato il luogo nel bosco e la meditazione, ma ciò che questa conoscenza un tempo permetteva, l’effetto che essa riusciva a produrre, è prodotto ora dal semplice racconto, che è in fondo il racconto di un oblio, il ricordo di un oblio poiché l’oblio è integrato nella narrazione, è ancora ricordato per quanto l’obliato, il contenuto dell’oblio, sia stato effettivamente obliato.

  Jean-François Lyotard ha ripreso qualche anno fa questa storia hassidica, suggerendo, dopo Auschwitz, di aggiungere una chiosa, un ultimo versetto “Tutto ciò che so fare è raccontare che non so più raccontare questa storia”.  Una piccola postilla, in fondo, ma capace di indicarci un altro intreccio tra racconto, memoria e oblio. Un intreccio che suggerisce tante cose, e  innanzitutto che il racconto è ancora indispensabile e contemporaneamente impossibile, che è l’oblio, non la memoria, non il ricordo dell’oblio, a costituire ormai la trama di questa narrazione necessaria e impossibile. E che quest’altro intreccio è quello con cui abbiamo a che fare e che dobbiamo interrogare dopo la cesura di Auschwitz.

  Quest’altro intreccio, in cui l’oblio del ricordo si lega indissolubilmente con l’oblio della narrazione, per cui, tutto quello che so fare oggi, e di narrare che ho obliato il narrare, compare anche in una lezione talmudica di Emmanuel Levinas in cui egli mette a confronto il significato della memoria nella coscienza ebraica prima e dopo la Shoah. In questa lezione, Levinas ricorda e commenta un passo del Deuteronomio, in cui al popolo viene ingiunto il ricordo dell’uscita dal paese dell’Egitto per tutti i giorni della sua vita, e il commento che di questo versetto fa la Mishnà: "Ti ricorderai dell’uscita dal paese dell’Egitto tutti i giorni della tua vita", significa che non te ne ricorderai solo durante il giorno ma anche durante  la notte.           

  C’è quindi un ricordo privilegiato, la liberazione della schiavitù in Egitto, all’interno del quale, suggerisce Levinas, si racchiude il significato che il ricordo e la memoria hanno in generale per l’identità e la coscienza ebraiche. Il ricordare ebraico è il ricordo di una prossimità con Dio e l’identità e la coscienza di questo popolo hanno a che fare immediatamente con la narrazione. E’ un’interiorità, commenta Levinas,  “in cui mormora una storia che conferisce il proprio senso al presente: la coscienza non sarebbe solamente l’attualizzazione del nuovo, ma anche narrazione del passato che la supporta e la ordina”.

  Ma in questa stessa lezione, Levinas scorge nella Shoah un evento che eccede la possibilità di trovare luogo nella memoria e di poter essere raccontato attraverso il concatenarsi dei ricordi, così come una prova che adombra il ricordo della schiavitù e dell’uscita dall’Egitto come momenti in cui fare continuamente ritorno. Questo non significa, per Levinas, che non ci sarà più ricordo della schiavitù e della liberazione, ma che essi non saranno più il ricordo privilegiato. Nella coscienza di sé, si potrebbe dire, smetterà di mormorare un passato capace di dar senso al nostro presente. “Ma ecco che la morte di bambini affamati ci rigetta verso i recinti dei serpenti, verso luoghi che non sono luoghi, verso dei luoghi che certo non possono essere obliati ma che tuttavia non riescono a situarsi nella memoria né a ordinarsi nel ricordo. Abbiamo conosciuto tali recinti nel nostro secolo”.

  Dopo Auschwitz, i fatti, la storia, non possono essere obliati, ma non si situano più nella memoria e non si ordinano nel ricordo, non ci sarà dunque nemmeno narrazione, concatenazione di quei fatti, o, se ci sarà narrazione, sarà necessariamente al di là dal ricordo, Au delà de souvenir, come appunto si intitola questa lezione talmudica di Levinas. 

  Queste due riflessioni, quella di Lyotard, sull’oblio come trama della narrazione necessaria e impossibile, e quella di Levinas, su un evento che non può essere obliato ma che non entra nella memoria,  possono forse dirci qualcosa rispetto alle narrazioni, che pure esistono, ai racconti di Auschwitz e degli altri campi della morte?

 Che cosa sono queste narrazioni che sono uscite dal delirio di parlare e contemporaneamente dal soffocamento della voce, come ricorda Robert Antelme, resistente francese, al suo ritorno da Buchenwald, o quelle che scaturiscono dal bisogno di essere ascoltati e di liberarsi di quell’esperienza, come più volte dice nei suoi libri e nelle sue interviste Primo Levi?

  In quanto racconti di cose viste ed esperite in prima persona, scritte per ammonire e per far sapere, essi appartengono al genere letterario della testimonianza, ma s’inseriscono anche, forzandolo, mutandolo e trasfigurandolo, nel genere dell’autobiografia.

  Se dell’autobiografia si accetta la definizione datane da Philippe Lejeune nel Patto autobiografico, noi lettori di Wiesel, Antelme, Levi, Klüger e altri ancora, non possiamo non sentirci chiamati, nella lettura, a rispettare quel patto, quel contratto che l’autore di un testo autobiografico propone e stabilisce con il suo lettore. Le loro testimonianze, infatti, affermano quell’identità del nome dell’autore, del narratore e del protagonista che fa di un racconto scritto, di solito in prima persona, un testo autobiografico.

  La particolarità di queste narrazioni, rispetto alle autobiografie classiche, è dovuta, innanzitutto, all’attenzione del racconto rivolta non tanto alla vita, ai sentimenti, agli affetti, agli accadimenti dell’esperienza di una persona, alle reazione che ha il testimone rispetto a ciò che gli accade, ma spostata su un accadere esterno, fatto di relazioni umane, di azioni, in un ambiente estraneo e incomprensibile, in cui si è immersi e di cui non si  è “autori”, tanto più che quest’immersione nell’accadere del campo di concentramento non ha a che fare con alcuna iniziativa del soggetto, poi protagonista, narratore e autore del racconto.   

  La loro memoria, si potrebbe dire seguendo una distinzione introdotta da Walter Benjamin, non è la memoria interiore del romanziere, valida anche per l’autore di un testo autobiografico, una memoria “dedicata ad un solo eroe, ad una sola traversia, a una sola lotta”. O meglio, la loro memoria, essendo la memoria di una loro propria e particolare esperienza,  è anche questo, ma è contemporaneamente simile a quella che, sempre per Walter Benjamin, è la memoria del narratore, consacrata ai “molti fatti diversi”.

  Non solo, i molti fatti diversi raccontati, la storia, non soltanto come storia individuale, come trama della vita di una persona, ma la storia come accadere, la storia in generale, viene raccontata in una prospettiva in cui è l’io ad essere totalmente immerso in essi, a subirli, e non è posto, invece, al centro del loro accadere in modo da illuminarli e da filtrarli attraverso sé. La storia è raccontata in una prospettiva in cui, si potrebbe dire riprendendo l’immagine di Primo Levi, l’io è sommerso, comunque sommerso, sia che appartenga alla schiera più numerosa dei sommersi, sia che appartenga all’esigua schiera dei salvati, dai fatti che racconta. Primo Levi è del tutto esplicito nella sua riflessione, in quello strano libro di memoria e riflessione che ci ha consegnato poco prima di suicidarsi, I sommersi e i salvati,  rispetto a questa particolare prospettiva in cui è collocato il soggetto del campo: in cui l’io è semplice “teatro dell’accadere” degli eventi, e che, per Levi, inficia non soltanto la sua possibilità di illuminare i fatti, di filtrarli e di comprenderli, di integrarli e poi narrarli, consegnandoceli nella narrazione con il segno della sua soggettività, ma anche la stessa possibilità da parte dell’io di rappresentarli.

  Scrive : “Per la conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano un buon osservatorio: nella condizione disumana cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d’insieme del loro universo”. Ma questi prigionieri con “gli occhi legati al suolo”, non sono evocati soltanto da Levi, ma anche da altri testimoni. Elie Wiesel, per esempio, in un dialogo con Semprun, deportato in quanto resistente francese, ricorda il suo essere stato nel campo un “mussulmano”, uno di coloro che piegati dalla fame e dal gelo e dalla stanchezza avevano smesso di reagire in modo umano. Di essere stato, dunque, privo di una qualsiasi capacità di reazione rispetto a ciò che vedeva e a ciò che accadeva.   

  Ora, ritornando alla domanda su che cosa sono queste narrazioni, e al problema della loro particolarità rispetto al genere autobiografico tra cui comunque vanno annoverate, vorrei fare riferimento a una distinzione richiamata da Hannah Arendt in una sua riflessione sull’azione umana e sul mondo plurale, in cui l’azione, unicamente, è possibile.

 Proprio perché qualsiasi nostra azione implica il fatto di inserirsi in un intreccio di relazioni umane già esistenti, noi non siamo mai gli unici artefici di tale azione, nel senso che possiamo sì cominciarla, ma non possiamo né governarne né prevederne la fine. Quello che sfugge, infatti, è la catena delle cause e degli effetti che quest’azione comporta, non ci sono mai veri autori di un’azione.

 Ma poiché per Hannah Arendt l’azione è anche il modo in cui il soggetto si rivela e appare agli altri,  i quali colgono l’identità del suo chi nei gesti, nei discorsi e negli atti di questo apparire, ciò comporta che le “storie” che l’azione produce, siano inserite a loro volta nel medium delle relazioni umane, non abbiano mai dei veri e propri autori.

   “Benché ognuno incominci la propria vita inserendosi nel mondo umano attraverso l’azione e il discorso, nessuno è autore e produttore della propria storia. In altre parole, le storie, i risultati dell’azione e del discorso, rivelano un agente che non ne è però autore e che non le ha prodotte. Qualcuno le ha cominciate e ne è il soggetto, nel duplice senso della parola, e cioè di attore e di chi ne ha subito le vicende, ma nessuno ne è l’autore”. E ciò, per la Arendt, vale anche per la Storia, la storia in generale, la quale diviene, alla fine, “il libro dei racconti dell’umanità”, il libro in cui vanno a confluire tutte le storie che ogni individuo si lascia alle spalle agendo e inserendosi nel mondo delle relazioni umane, e, che, proprio come queste storie individuali, è priva di un unico autore.

  E’ a questo punto che la Arendt traccia una differenza tra, da una parte, le storie reali che ognuno lascia dietro di sé agendo e la storia in generale, e, dall’altra, le storie fittizie, le narrazioni letterarie e le storie inventate. Mentre le storie reali, che sono i risultati delle azioni, non hanno alcun autore, e ciò vale anche per la storia in generale, le storie inventate indicano chiaramente di essere fatte da qualcuno, hanno un artefice, un autore.

  Riprendendo tale distinzione, potremmo dire che, benché costruite nella narrazione, le storie narrateci dai testimoni della Shoah, ci rivelano un’attenzione del racconto rivolta verso la storia reale non scritta da nessuno, a tal punto che questa attenzione è capace di mettere in crisi l’autore della narrazione stessa. Queste narrazioni, che come tali sono costruite nella ripetizione, sono “fatte” e, quindi, continuando ad usare il linguaggio arendtiano, ci rivelano un “artefice”, lo rivelano sì, necessariamente, ma attraverso una storia inventata e narrata talmente “attenta”, compenetrata di storia reale, da far sì che quella rivelazione dell’autore venga contemporaneamente adombrata.

  Leggerei così le infinite dichiarazioni di Levi in cui ci dice di non essere scrittore fino in fondo, o di non essersi posto problemi di stile nello scrivere la sua testimonianza in Se questo è un uomo; leggerei così anche le dichiarazioni di Elie Wiesel, in cui esso limita il proprio stesso essere autore, la sua funzione autoriale, dicendoci che se gli altri, coloro che non sono tornati, i sommersi, avessero potuto raccontare, non sarebbe stato lui a farlo.

  E, tornando ancora una volta a Primo Levi, leggerei così persino quell’inquietante passo dei Sommersi e i salvati  in cui l’autore, dopo aver trascorso una vita a scrivere e a parlare testimoniando, alla fine deve confessare a noi e a se stesso di non essere il vero testimone, di parlare per conto di terzi, i sommersi, di scrivere e di parlare in loro vece. Questi ultimi, assoluti non-autori delle loro storie individuali e reali immerse in una Storia reale che ha segnato per sempre l’anonimato di coloro che l’hanno subita, sono anche il limite invalicabile del passaggio dalla storia e dalle storie reali alla storia e alle storie inventate, scritte, narrate.

  In tutti questi passi, in quelli di Levi, di Wiesel, ma le citazioni potrebbero continuare, ritroviamo una stessa immagine: l’autore-narratore-protagonista di una storia, che in più è anche la sua storia, nega di esserne l’autore, nega la sua funzione autoriale, la capacità di assumere fino in fondo la storia narrata come una sua narrazione, e ciò ha a che fare, ovviamente, con la materia che in essa viene narrata. Il grande viaggio di Semprun è, forse, l’esemplificazione più evidente di tale immagine.  Tutto il racconto è scritto in prima persona e narra soltanto il viaggio che porta il protagonista, autore e narratore, dalla Francia, dove è stato arrestato, a Buchenwald. L’altro racconto, quello dell’esperienza del campo, si profila alla fine come il racconto impossibile – che infatti non ci verrà fatto – di un’esperienza rispetto a cui il soggetto che l’esperisce deve abbandonare la sua stessa soggettività, la sua possibilità di essere, di identificarsi e di dirsi tramite l’assunzione dell’”io”. Alla fine del racconto di Semprun c’è un brusco passaggio dalla prima alla terza persona: è Gérard e non più “io”, che alla fine del grande viaggio “salta sul marciapiede, nella luce accecante”.

   Ma in La scrittura o la vita, Semprun ci rivela di non essere riuscito a raccontare questa storia se non nel momento in cui ha inserito nella sua esperienza un elemento di finzione, la figura di un amico, il ragazzo di Semur, che accompagna il protagonista per tutto il viaggio sul treno che li deporta verso Buchenwald. Affinché questa storia sia scritta, e in questo caso veramente inventata, è necessaria la presenza di un altro, che permette all’autore del romanzo di essere autore, ma pervadendolo immediatamente con la sua alterità.  L’autore è autore soltanto attraverso l’invenzione della figura di un altro che lo accompagna nel viaggio e che gli permette la scrittura, la ripetizione di quel viaggio e il suo confluire nella narrazione.

  Ritornando, ora, alla Arendt, la differenza che essa stabilisce tra le storie reali e la storia inventata, costruita da un “arteficie”-“autore” della storia, è che l’azione è così indissolubilmente “legata al flusso vivente dell’agire e del parlare” che essa può confluire nell’opera e essere rappresentata, oggettivata e reificata da quest’ultima, solo attraverso una ripetizione.

  Questo breve accenno alla nozione di “ripetizione” della Arendt non mi interessa, qui, rispetto all’ulteriore sviluppo che esso prende nella riflessione della Arendt stessa, e cioè al fatto di essere legato all’imitazione, alla mimesis, ma solo per riferirlo al punto da cui ero partita, alla particolare forma di autobiografia che sono queste narrazioni–testimonianze della Shoah.

 Cerco di avviarmi, così, alla conclusione, ritornando al vero punto di partenza, l’oblio del ricordo che avevo intravisto nella chiosa di Lyotard alla storiella hassidica – tutto ciò che so fare è di raccontare che non so raccontare – e che è anche il titolo che ho scelto per questa conferenza.

  Per le autobiografie classiche, o, per lo meno, per quelle forme autobiografiche che non mettono troppo in discussione il genere autobiografico, questo elemento di ripetizione intravisto dalla Arendt in ogni opera d’arte che ci racconti e glorifichi un’azione, potrebbe avere a che fare con la particolare temporalità introdotta dall’enunciazione: l’adesso in cui si colloca la voce narrante, il presente dell’atto dell’enunciazione, e rispetto a cui tutto il racconto è retrospettivo. Anche quando l’autore-narratore di un testo autobiografico – del racconto della storia di una vita – non segue in modo pedissequamente cronologico l’accadere dei fatti e dell’esperienza, anche quando si premette dei giochi temporali in cui il futuro irrompe nel passato, tutto avviene, comunque, in una narrazione riportata al presente enunciativo, rispetto a cui quei futuri si chiariscono con frasi quali “come vedremo in seguito”, “come accadrà dopo rispetto al momento che stiamo narrando ora”. Frasi che ridonano al futuro la dimensione temporale del passato rispetto al presente in cui si colloca il narratore di quei fatti. Per questo, il presente dell’enunciazione, rispetto a cui tutto è retrospettivo, assume, nei testi autobiografici, la dimensione di uno strano momento al di fuori del tempo.

  Se assumiamo, per esempio, come generalmente si fa, il momento della nascita dell’autobiografia con il testo delle Confessioni di Agostino, possiamo scorgere che in esso il presente da cui ci vengono narrati gli episodi della vita dell’autore, prima della conversione al cristianesimo, così come il presente enunciativo, sempre lo stesso, degli ultimi libri delle Confessioni, è uno strano presente, più simile a un presente atemporale, a quell’eterno presente, tutto presente, che, per Agostino, è il presente di Dio.

  Se poi assumiamo, invece, questa volta in modo arbitrario, il momento per così dire “finale” dell’autobiografia nel Novecento, e se, ancor più arbitrariamente, indichiamo in Alla ricerca del tempo perduto un luogo canonico di questa fine, possiamo scorgere che anche in questo caso il presente enunciativo del narratore proustiano è collocato, a sua volta, in uno strano presente atemporale che Proust esplicita addirittura dicendoci che le esperienze della mémoire involontaire, con cui il protagonista narratore recupera il tempo perduto, sono degli istanti collocati al di fuori del tempo, o attimi di tempo allo stato puro.

  Non vorrei però sconcertare molti di voi citando la Recherche come un testo autobiografico, e non vorrei soprattutto sconcertare l’autore di questo romanzo, Marcel Proust, il quale in tutti i modi ha cercato di difendere la propria opera, da una lettura autobiografica. Prendo la Recherche come testo “autobiografico”, solo nel senso che l’opera di Proust, il suo romanzo, ci racconta la storia della vita di un narratore-protagonista alla fine della quale il protagonista potrà diventare effettivamente narratore, scrivere un’opera – di cui noi abbiamo soltanto l’annuncio – la cui materia sarà costituita dalla propria vita passata e si farà dunque autore della propria storia. “Autobiografia”, quindi, nel senso indicato dalla felice intuizione di Gérard Genette che parla della Recherche come di un’autobiografia sognata.

  Si potrebbe dire, insomma, in modo molto rapido, che nei testi autobiografici, in generale, il momento temporale da cui avviene l’enunciazione è un presente di “fine della storia”, fine che diventa esplicita, nella narrazione, quando quest’ultima giunge veramente al momento finale, quando cioè lo iato tra il presente enunciativo e il passato raccontato sta per essere colmato, ma che in realtà agiva nella narrazione, essendone addirittura la condizione di possibilità, sin dall’inizio. “Fine della storia” nel senso che la storia è già tutta raccolta, unita, presente davanti a sé nell’adesso dell’enunciazione a partire dal quale quella storia ci viene raccontata nel suo svolgersi e dispiegarsi. La storia,  la trama della narrazione, che come narrazione autobiografica cerca sempre l’unità nella storia del protagonista, la continuità delle sue varie esperienze, può essere narrata e dispiegata, cioè, solo da un momento collocato al di fuori del tempo del racconto in cui essa è già unità. La ricerca dell’unità, nell’autobiografia, è sempre, in un certo senso, un elemento di finzione, poiché l’unità cercata è il presupposto della ricerca-narrazione.

  “Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto ad un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”.

  Scrive così Levi  in Se questo è un uomo. Levi ha testimoniato, ha raccontato una storia, la sua storia nel campo di Auschwitz-Birkenau, ci dà quindi una memoria individuale e lo fa attraverso una narrazione di cui ovviamente è l’autore-arteficie, e poi, a un certo punto, scrive il passo che ho appena citato. E’ un’annotazione al margine di uno dei capitoli, e dunque a uno degli episodi del Lager, l’episodio dell’esame di chimica grazie cui Levi viene scelto per lavorare nel laboratorio della  I.G. Farben  riuscendo così a sopravvivere.

  Dal contesto non è del tutto comprensibile se Levi riferisca quel senso d’irrealtà rispetto al passato soltanto all’episodio dell’esame di chimica o a tutta la “storia” del Lager, all’intera sua esperienza in esso.

  Si tratta, in ogni caso, di un’irruzione dell’io nell’istanza del discorso profondamente diversa da quella che abbiamo visto in Proust e in Agostino, un’irruzione in cui l’io narrante non riesce più a trovare e a tracciare, a intrecciare e quindi a narrare, l’unità tra l’io presente dell’enunciazione e il passato. Un’irruzione in cui il momento presente dell’enunciazione, detto nel testo, “oggi, questo vero oggi…”, nel momento stesso in cui si accorge, per così dire, di sé, proprio perché viene esplicitato, mette in dubbio l’evento passato in quanto evento reale, mettendo quindi in dubbio il passato di quel passato. E ci indica così, d’improvviso, con questa piccola annotazione, il momento di un’altra “fine della storia”, diversa della “fine della storia” all’opera nelle autobiografie in cui la storia finiva perché era prodotta da un istante in cui era già raccolta-unita-una. La storia di Levi finisce, invece, per quanto nella narrazione poi riprenda, perché non può più essere raccolta.

  Ma Levi ci lascia in realtà lo spazio di un’alternativa, l’ambiguità, per lo meno, di un’oscillazione, e con lui anche gli altri autori-non autori di quelle narrazioni dei campi che, non narrazioni, noi pure leggiamo. Formulerei così tale oscillazione: c’è storia, narrazione, memoria e ricordo di quell’esperienza vissuta finche non c’è “consapevolezza” del fatto che la narrazione è tale, del fatto che per essere tale essa ha bisogno di un luogo temporale e di un io – una voce – da cui deve essere proferita. C’è, dunque, storia inventata, narrazione, memoria e ricordo quando l’autore dimentica di essere tale, e ci consegna la sua narrazione come se essa provenisse da un momento d’incoscienza, da un momento di non vigilanza e, arrischio, da un momento di sogno. E’ lo stesso Levi, d’altronde, in una poesia che sta all’inizio della Tregua a dirci che i racconti sono stati fatti durante la notte, in un tempo che è il tempo del dopo, che è contemporaneamente il tempo di un sogno.

  C’è storia inventata, narrazione, memoria e ricordo nell’oblio del tempo, del luogo e dell’io della narrazione. Ma poi, in una sorta di magico rovesciamento, quando quest’oblio finisce e d’improvviso l’autore ricorda d’essere tale, il tempo, il luogo e l’io della narrazione affiorano, vengono al giorno, all’adesso dell’enunciazione, ed allora è il passato che si voleva narrare a dissolversi nello strano oblio di un’irrealtà. E quel passato, che pure è stato e che doveva essere narrato, quel passato ricordato in una narrazione necessaria, ora declinante verso l’oblio, ci mostra l’impossibilità di quella narrazione.

  “Quello che oggi posso fare – era la chiosa che Lyotard aggiungeva alla storiella hassidica – è di raccontare che non so più raccontare questa storia”. A questa chiosa, evocando l’oggi di Primo Levi, mi limito ad affiancarne un’altra:  “Quello che oggi – mentre racconto – so fare, è indicare l’impossibilità di quel racconto che comunque, spinto da necessità, sto facendo”.  E’ il momento di un’altra frattura: quella in cui l’io narrante oscilla rispetto all’identificazione con il proprio racconto e precipita verso un passato che certamente è stato ma che non lascia all’io la possibilità di raccoglierlo nella trama della propria narrazione, della propria storia, della propria identità e della propria “coscienza”.   

Testi di riferimento:

P. Levi, Se questo è un uomo, Einuadi, Torino

P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino

P. Levi, La tregua, Einuadi, Torino

E. Wiesel, La Notte, La Giuntina, Firenze

E. Wiesel, Célébration hassidique, Seuil, Paris

J. Semprun, Il grande viaggio, Einuadi, Torino

J. Semprun, La scrittura o la vita, Guanda, Parma

E. Wiesel – J. Semprun, Tacere è impossibile, Guanda, Parma

R. Klüger, Vivere ancora, Einaudi, Torino

G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einuadi, Torino

Ph. Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna

H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano

J.-F. Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, Feltrinelli, Milano

 

 

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