C’è una
storia che viene raccontata da più persone, in vari luoghi.
Una storia hassidica, divertente, ma
soprattutto molto indicativa rispetto a quale è stata la funzione di raccontare
storie all’interno del movimento hassidico. Secondo l’indicazione che ne dà
Scholem, il fatto di raccontare storie assunse, nella fase finale di tale
movimento, quasi il significato di un nuovo valore religioso.
Citerò questa storia da una delle Celebrazioni
di Elie Wiesel, testimone bambino dell’orrore di Auschwitz, ma essa viene
raccontata anche da Scholem, nelle Grandi
correnti della mistica ebraica, che l’aveva intesa, a sua volta, da Agnon.
“Quando il grande Rabbi Israel Baal Shem-Tov vedeva
annunciarsi una disgrazia per il popolo ebraico, aveva come abitudine di
raccogliersi in un certo posto nel bosco; là, accendeva il fuoco, recitava una
preghiera e il miracolo si compiva, revocando la disgrazia.
In seguito, quando il suo discepolo, il celebre Maggìd di
Meseritz, doveva appellarsi al cielo per le stesse ragioni, si recava nello
stesso posto nel bosco e diceva: ‘Signore dell’universo, ascolta. Non so
come accendere il fuoco, ma sono ancora capace di recitare la preghiera’. E il
miracolo si compiva.
In seguito, il Rabbi Moshè Leib di Sassow, per salvare il
suo popolo, andava anche lui nel bosco e diceva: ‘Non so accendere il fuoco,
ma so dov’è il luogo, e ciò dovrebbe bastare’. E ciò bastava: anche in
questo caso il miracolo si compiva.
Poi toccò a Rabbi Israel di Rischin schivare la minaccia. Seduto in
poltrona prendeva la propria testa tra le mani e parlava a Dio: ‘Sono incapace
di accendere il fuoco, non conosco la preghiera, e non posso nemmeno trovare il
posto nel bosco. Tutto ciò che so fare, è di raccontare questa storia. E ciò
dovrebbe bastare’. E ciò bastava”
Questa storia dice qualcosa non solo rispetto al rapporto tra narrazione
e memoria ma anche tra narrazione e oblio; il raccontare storie, comunque, se
ricorda che qualcosa è stato obliato, riesce
ancora a contenerlo in sé, a integrarlo nella narrazione. Quest’ultima,
diviene allora la memoria per eccellenza, capace di svolgere da sola la funzione
che prima era svolta da ciò che ora è stato obliato.
Non sappiamo più, abbiamo obliato
come si accende il fuoco, non conosciamo più, abbiamo dimenticato il luogo nel
bosco e la meditazione, ma ciò che questa conoscenza un tempo permetteva,
l’effetto che essa riusciva a produrre, è prodotto ora dal semplice racconto,
che è in fondo il racconto di un oblio, il ricordo di un oblio poiché
l’oblio è integrato nella narrazione, è ancora ricordato per quanto
l’obliato, il contenuto dell’oblio, sia stato effettivamente obliato.
Jean-François Lyotard ha ripreso qualche anno fa questa storia hassidica,
suggerendo, dopo Auschwitz, di aggiungere una chiosa, un ultimo versetto
“Tutto ciò che so fare è raccontare che non so più raccontare questa
storia”. Una piccola postilla, in
fondo, ma capace di indicarci un altro intreccio tra racconto, memoria e oblio.
Un intreccio che suggerisce tante cose, e innanzitutto
che il racconto è ancora indispensabile e contemporaneamente impossibile, che
è l’oblio, non la memoria, non il ricordo dell’oblio, a costituire ormai la
trama di questa narrazione necessaria e impossibile. E che quest’altro
intreccio è quello con cui abbiamo a che fare e che dobbiamo interrogare dopo
la cesura di Auschwitz.
Quest’altro intreccio, in cui l’oblio del ricordo si lega
indissolubilmente con l’oblio della narrazione, per cui, tutto quello che so
fare oggi, e di narrare che ho obliato il narrare, compare anche in una lezione
talmudica di Emmanuel Levinas in cui egli mette a confronto il significato della
memoria nella coscienza ebraica prima e dopo la Shoah. In questa lezione,
Levinas ricorda e commenta un passo del Deuteronomio, in cui al popolo viene
ingiunto il ricordo dell’uscita dal paese dell’Egitto per tutti i giorni
della sua vita, e il commento che di questo versetto fa la Mishnà: "Ti
ricorderai dell’uscita dal paese dell’Egitto tutti i giorni della tua
vita", significa che non te ne ricorderai solo durante il giorno ma anche
durante la notte.
C’è quindi un ricordo privilegiato, la liberazione della schiavitù in
Egitto, all’interno del quale, suggerisce Levinas, si racchiude il significato
che il ricordo e la memoria hanno in generale per l’identità e la coscienza
ebraiche. Il ricordare ebraico è il ricordo di una prossimità con Dio e
l’identità e la coscienza di questo popolo hanno a che fare immediatamente
con la narrazione. E’ un’interiorità, commenta Levinas,
“in cui mormora una storia che conferisce il proprio senso al presente:
la coscienza non sarebbe solamente l’attualizzazione del nuovo, ma anche
narrazione del passato che la supporta e la ordina”.
Ma in questa stessa lezione, Levinas scorge nella Shoah un evento che
eccede la possibilità di trovare luogo nella memoria e di poter essere
raccontato attraverso il concatenarsi dei ricordi, così come una prova che
adombra il ricordo della schiavitù e dell’uscita dall’Egitto come momenti
in cui fare continuamente ritorno. Questo non significa, per Levinas, che non ci
sarà più ricordo della schiavitù e della liberazione, ma che essi non saranno
più il ricordo privilegiato. Nella coscienza di sé, si potrebbe dire, smetterà
di mormorare un passato capace di dar senso al nostro presente. “Ma ecco che
la morte di bambini affamati ci rigetta verso i recinti dei serpenti, verso
luoghi che non sono luoghi, verso dei luoghi che certo non possono essere
obliati ma che tuttavia non riescono a situarsi nella memoria né a ordinarsi
nel ricordo. Abbiamo conosciuto tali recinti nel nostro secolo”.
Dopo Auschwitz, i fatti, la storia, non possono essere obliati, ma non si
situano più nella memoria e non si ordinano nel ricordo, non ci sarà dunque
nemmeno narrazione, concatenazione di quei fatti, o, se ci sarà narrazione, sarà
necessariamente al di là dal ricordo, Au
delà de souvenir, come appunto si intitola questa lezione talmudica di
Levinas.
Queste due riflessioni, quella di Lyotard, sull’oblio come trama della
narrazione necessaria e impossibile, e quella di Levinas, su un evento che non
può essere obliato ma che non entra nella memoria,
possono forse dirci qualcosa rispetto alle narrazioni, che pure esistono,
ai racconti di Auschwitz e degli altri campi della morte?
Che
cosa sono queste narrazioni che sono uscite dal delirio di parlare e
contemporaneamente dal soffocamento della voce, come ricorda Robert Antelme,
resistente francese, al suo ritorno da Buchenwald, o quelle che scaturiscono dal
bisogno di essere ascoltati e di liberarsi di quell’esperienza, come più
volte dice nei suoi libri e nelle sue interviste Primo Levi?
In quanto racconti di cose viste ed esperite in prima persona, scritte
per ammonire e per far sapere, essi appartengono al genere letterario della
testimonianza, ma s’inseriscono anche, forzandolo, mutandolo e
trasfigurandolo, nel genere dell’autobiografia.
Se dell’autobiografia si accetta la definizione datane da Philippe
Lejeune nel Patto autobiografico, noi
lettori di Wiesel, Antelme, Levi, Klüger e altri ancora, non possiamo non
sentirci chiamati, nella lettura, a rispettare quel patto, quel contratto che
l’autore di un testo autobiografico propone e stabilisce con il suo lettore.
Le loro testimonianze, infatti, affermano quell’identità del nome
dell’autore, del narratore e del protagonista che fa di un racconto scritto,
di solito in prima persona, un testo autobiografico.
La particolarità di queste narrazioni, rispetto alle autobiografie
classiche, è dovuta, innanzitutto, all’attenzione del racconto rivolta non
tanto alla vita, ai sentimenti, agli affetti, agli accadimenti dell’esperienza
di una persona, alle reazione che ha il testimone rispetto a ciò che gli
accade, ma spostata su un accadere esterno, fatto di relazioni umane, di azioni,
in un ambiente estraneo e incomprensibile, in cui si è immersi e di cui non si
è “autori”, tanto più che quest’immersione nell’accadere del
campo di concentramento non ha a che fare con alcuna iniziativa del soggetto,
poi protagonista, narratore e autore del racconto.
La loro memoria, si potrebbe dire seguendo una distinzione introdotta da
Walter Benjamin, non è la memoria interiore del romanziere,
valida anche per l’autore di un testo autobiografico, una memoria “dedicata
ad un solo eroe, ad una sola traversia, a una sola lotta”. O meglio, la loro
memoria, essendo la memoria di una loro propria e particolare esperienza,
è anche questo, ma è contemporaneamente simile a quella che, sempre per
Walter Benjamin, è la memoria del narratore,
consacrata ai “molti fatti diversi”.
Non solo, i molti fatti diversi raccontati, la storia, non
soltanto come storia individuale, come trama della vita di una persona, ma la
storia come accadere, la storia in generale, viene raccontata in una prospettiva
in cui è l’io ad essere totalmente immerso in essi, a subirli, e non è
posto, invece, al centro del loro accadere in modo da illuminarli e da filtrarli
attraverso sé. La storia è raccontata in una prospettiva in cui, si potrebbe
dire riprendendo l’immagine di Primo Levi, l’io è sommerso, comunque sommerso, sia che appartenga alla schiera più
numerosa dei sommersi, sia che appartenga all’esigua schiera dei salvati, dai
fatti che racconta. Primo Levi è del tutto esplicito nella sua riflessione, in
quello strano libro di memoria e riflessione che ci ha consegnato poco prima di
suicidarsi, I sommersi e i salvati,
rispetto a questa particolare prospettiva in cui è collocato il soggetto
del campo: in cui l’io è semplice “teatro dell’accadere” degli eventi,
e che, per Levi, inficia non soltanto la sua possibilità di illuminare i fatti,
di filtrarli e di comprenderli, di integrarli e poi narrarli, consegnandoceli
nella narrazione con il segno della sua soggettività, ma anche la stessa
possibilità da parte dell’io di rappresentarli.
Scrive : “Per la conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano un buon
osservatorio: nella condizione disumana cui erano assoggettati, era raro che i
prigionieri potessero acquisire una visione d’insieme del loro universo”. Ma
questi prigionieri con “gli occhi legati al suolo”, non sono evocati
soltanto da Levi, ma anche da altri testimoni. Elie Wiesel, per esempio, in un
dialogo con Semprun, deportato in quanto resistente francese, ricorda il suo
essere stato nel campo un “mussulmano”, uno di coloro che piegati dalla fame
e dal gelo e dalla stanchezza avevano smesso di reagire in modo umano. Di essere
stato, dunque, privo di una qualsiasi capacità di reazione rispetto a ciò che
vedeva e a ciò che accadeva.
Ora, ritornando alla domanda su che cosa sono queste narrazioni, e al
problema della loro particolarità rispetto al genere autobiografico tra cui
comunque vanno annoverate, vorrei fare riferimento a una distinzione richiamata
da Hannah Arendt in una sua riflessione sull’azione umana e sul mondo plurale,
in cui l’azione, unicamente, è possibile.
Proprio
perché qualsiasi nostra azione implica il fatto di inserirsi in un intreccio di
relazioni umane già esistenti, noi non siamo mai gli unici artefici di tale
azione, nel senso che possiamo sì cominciarla, ma non possiamo né governarne né
prevederne la fine. Quello che sfugge, infatti, è la catena delle cause e degli
effetti che quest’azione comporta, non ci sono mai veri autori di un’azione.
Ma
poiché per Hannah Arendt l’azione è anche il modo in cui il soggetto si
rivela e appare agli altri, i quali
colgono l’identità del suo chi nei
gesti, nei discorsi e negli atti di questo apparire, ciò comporta che le
“storie” che l’azione produce, siano inserite a loro volta nel medium
delle relazioni umane, non abbiano mai dei veri e propri autori.
“Benché ognuno incominci la propria vita inserendosi nel mondo umano
attraverso l’azione e il discorso, nessuno è autore e produttore della
propria storia. In altre parole, le storie, i risultati dell’azione e del
discorso, rivelano un agente che non ne è però autore e che non le ha
prodotte. Qualcuno le ha cominciate e ne è il soggetto, nel duplice senso della
parola, e cioè di attore e di chi ne ha subito le vicende, ma nessuno ne è
l’autore”. E ciò, per la Arendt, vale anche per la Storia, la storia in
generale, la quale diviene, alla fine, “il libro dei racconti dell’umanità”,
il libro in cui vanno a confluire tutte le storie che ogni individuo si lascia
alle spalle agendo e inserendosi nel mondo delle relazioni umane, e, che,
proprio come queste storie individuali, è priva di un unico autore.
E’ a questo punto che la Arendt traccia una differenza tra, da una
parte, le storie reali che ognuno lascia dietro di sé agendo e la storia in
generale, e, dall’altra, le storie fittizie, le narrazioni letterarie e le
storie inventate. Mentre le storie reali, che sono i risultati delle azioni, non
hanno alcun autore, e ciò vale anche per la storia in generale, le storie
inventate indicano chiaramente di essere fatte da qualcuno, hanno un artefice,
un autore.
Riprendendo tale distinzione, potremmo dire che, benché costruite nella
narrazione, le storie narrateci dai testimoni della Shoah, ci rivelano
un’attenzione del racconto rivolta verso la storia reale non scritta da
nessuno, a tal punto che questa attenzione è capace di mettere in crisi
l’autore della narrazione stessa. Queste narrazioni, che come tali sono
costruite nella ripetizione, sono “fatte” e, quindi, continuando ad usare il
linguaggio arendtiano, ci rivelano un “artefice”, lo rivelano sì,
necessariamente, ma attraverso una storia inventata e narrata talmente
“attenta”, compenetrata di storia reale, da far sì che quella rivelazione
dell’autore venga contemporaneamente adombrata.
Leggerei così le infinite dichiarazioni di Levi in cui ci dice di non
essere scrittore fino in fondo, o di non essersi posto problemi di stile nello
scrivere la sua testimonianza in Se questo
è un uomo; leggerei così anche le dichiarazioni di Elie Wiesel, in cui
esso limita il proprio stesso essere autore, la sua funzione autoriale,
dicendoci che se gli altri, coloro che non sono tornati, i sommersi, avessero
potuto raccontare, non sarebbe stato lui a farlo.
E, tornando ancora una volta a Primo Levi, leggerei così persino
quell’inquietante passo dei Sommersi e i
salvati in cui l’autore, dopo
aver trascorso una vita a scrivere e a parlare testimoniando, alla fine deve
confessare a noi e a se stesso di non essere il vero testimone, di parlare per
conto di terzi, i sommersi, di scrivere e di parlare in loro vece. Questi
ultimi, assoluti non-autori delle loro storie individuali e reali immerse in una
Storia reale che ha segnato per sempre l’anonimato di coloro che l’hanno
subita, sono anche il limite invalicabile del passaggio dalla storia e dalle
storie reali alla storia e alle storie inventate, scritte, narrate.
In tutti questi passi, in quelli di Levi, di Wiesel, ma le citazioni
potrebbero continuare, ritroviamo una stessa immagine: l’autore-narratore-protagonista
di una storia, che in più è anche la sua storia, nega di esserne l’autore,
nega la sua funzione autoriale, la capacità di assumere fino in fondo la storia
narrata come una sua narrazione, e ciò ha a che fare, ovviamente, con la
materia che in essa viene narrata. Il
grande viaggio di Semprun è, forse, l’esemplificazione più evidente di
tale immagine. Tutto il racconto è
scritto in prima persona e narra soltanto il viaggio che porta il protagonista,
autore e narratore, dalla Francia, dove è stato arrestato, a Buchenwald.
L’altro racconto, quello dell’esperienza del campo, si profila alla fine
come il racconto impossibile – che infatti non ci verrà fatto – di
un’esperienza rispetto a cui il soggetto che l’esperisce deve abbandonare la
sua stessa soggettività, la sua possibilità di essere, di identificarsi e di
dirsi tramite l’assunzione dell’”io”. Alla fine del racconto di Semprun
c’è un brusco passaggio dalla prima alla terza persona: è Gérard e non più
“io”, che alla fine del grande viaggio “salta sul marciapiede, nella luce
accecante”.
Ma in La scrittura o la vita,
Semprun ci rivela di non essere riuscito a raccontare questa storia se non nel
momento in cui ha inserito nella sua esperienza un elemento di finzione, la
figura di un amico, il ragazzo di Semur, che accompagna il protagonista per
tutto il viaggio sul treno che li deporta verso Buchenwald. Affinché questa
storia sia scritta, e in questo caso veramente inventata, è necessaria la
presenza di un altro, che permette
all’autore del romanzo di essere autore, ma pervadendolo immediatamente con la
sua alterità. L’autore è autore
soltanto attraverso l’invenzione della figura di un altro che lo accompagna
nel viaggio e che gli permette la scrittura, la ripetizione di quel viaggio e il
suo confluire nella narrazione.
Ritornando,
ora, alla Arendt, la differenza che essa stabilisce tra le storie reali e la
storia inventata, costruita da un “arteficie”-“autore” della storia, è
che l’azione è così indissolubilmente “legata al flusso vivente
dell’agire e del parlare” che essa può confluire nell’opera e essere
rappresentata, oggettivata e reificata da quest’ultima, solo attraverso una
ripetizione.
Questo breve accenno alla nozione di “ripetizione” della Arendt non
mi interessa, qui, rispetto all’ulteriore sviluppo che esso prende nella
riflessione della Arendt stessa, e cioè al fatto di essere legato
all’imitazione, alla mimesis, ma
solo per riferirlo al punto da cui ero partita, alla particolare
forma di autobiografia che sono queste narrazioni–testimonianze della
Shoah.
Cerco
di avviarmi, così, alla conclusione, ritornando al vero punto di partenza, l’oblio
del ricordo che avevo intravisto nella chiosa di Lyotard alla storiella
hassidica – tutto ciò che so fare è di raccontare che non so raccontare –
e che è anche il titolo che ho scelto per questa conferenza.
Per le autobiografie classiche, o, per lo meno, per quelle forme
autobiografiche che non mettono troppo in discussione il genere autobiografico,
questo elemento di ripetizione
intravisto dalla Arendt in ogni opera d’arte che ci racconti e glorifichi
un’azione, potrebbe avere a che fare con la particolare temporalità
introdotta dall’enunciazione: l’adesso
in cui si colloca la voce narrante, il
presente dell’atto dell’enunciazione, e rispetto a cui tutto il racconto è
retrospettivo. Anche quando l’autore-narratore di un testo autobiografico –
del racconto della storia di una vita – non segue in modo pedissequamente
cronologico l’accadere dei fatti e dell’esperienza, anche quando si premette
dei giochi temporali in cui il futuro irrompe nel passato, tutto avviene,
comunque, in una narrazione riportata al presente enunciativo, rispetto a cui
quei futuri si chiariscono con frasi quali “come vedremo in seguito”,
“come accadrà dopo rispetto al momento che stiamo narrando ora”. Frasi che
ridonano al futuro la dimensione temporale del passato rispetto al presente in
cui si colloca il narratore di quei fatti. Per questo, il presente
dell’enunciazione, rispetto a cui tutto è retrospettivo, assume, nei testi
autobiografici, la dimensione di uno strano momento al di fuori del tempo.
Se assumiamo, per esempio, come generalmente si fa, il momento della
nascita dell’autobiografia con il testo delle Confessioni
di Agostino, possiamo scorgere che in esso il presente da cui ci vengono narrati gli episodi della vita
dell’autore, prima della conversione al cristianesimo, così come il presente
enunciativo, sempre lo stesso, degli ultimi libri delle Confessioni, è uno strano presente, più simile a un presente
atemporale, a quell’eterno presente, tutto presente, che, per Agostino, è il
presente di Dio.
Se poi assumiamo, invece, questa volta in modo arbitrario, il momento per
così dire “finale” dell’autobiografia nel Novecento, e se, ancor più
arbitrariamente, indichiamo in Alla
ricerca del tempo perduto un luogo canonico di questa fine, possiamo
scorgere che anche in questo caso il presente enunciativo del narratore
proustiano è collocato, a sua volta, in uno strano presente atemporale che
Proust esplicita addirittura dicendoci che le esperienze della mémoire
involontaire, con cui il protagonista narratore recupera il tempo perduto,
sono degli istanti collocati al di fuori del tempo, o attimi di tempo allo stato
puro.
Non vorrei però sconcertare molti di voi citando la Recherche
come un testo autobiografico, e non vorrei soprattutto sconcertare l’autore di
questo romanzo, Marcel Proust, il quale in tutti i modi ha cercato di difendere
la propria opera, da una lettura autobiografica. Prendo la Recherche come testo “autobiografico”, solo nel senso che
l’opera di Proust, il suo romanzo, ci racconta la storia della vita di un
narratore-protagonista alla fine della quale il protagonista potrà diventare
effettivamente narratore, scrivere un’opera – di cui noi abbiamo soltanto
l’annuncio – la cui materia sarà costituita dalla propria vita passata e si
farà dunque autore della propria storia.
“Autobiografia”, quindi, nel senso indicato dalla felice intuizione di Gérard
Genette che parla della Recherche come
di un’autobiografia sognata.
Si
potrebbe dire, insomma, in modo molto rapido, che nei testi autobiografici, in
generale, il momento temporale da cui avviene l’enunciazione è un presente di
“fine della storia”, fine che diventa esplicita, nella narrazione, quando
quest’ultima giunge veramente al momento finale, quando cioè lo iato tra il
presente enunciativo e il passato raccontato sta per essere colmato, ma
che in realtà agiva nella narrazione, essendone addirittura la condizione
di possibilità, sin dall’inizio. “Fine della storia” nel senso che la
storia è già tutta raccolta, unita, presente davanti a sé nell’adesso
dell’enunciazione a partire dal quale quella storia ci viene raccontata nel
suo svolgersi e dispiegarsi. La storia, la
trama della narrazione, che come narrazione autobiografica cerca sempre l’unità
nella storia del protagonista, la continuità
delle sue varie esperienze, può essere narrata e dispiegata, cioè, solo da un
momento collocato al di fuori del tempo del racconto in cui essa è già unità.
La ricerca dell’unità, nell’autobiografia, è sempre, in un certo senso, un
elemento di finzione, poiché l’unità cercata è il presupposto della
ricerca-narrazione.
“Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto ad un tavolo e scrivo, io
stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”.
Scrive così Levi in Se questo è un uomo. Levi ha testimoniato, ha raccontato una
storia, la sua storia nel campo di Auschwitz-Birkenau, ci dà quindi una memoria
individuale e lo fa attraverso una narrazione di cui ovviamente è l’autore-arteficie,
e poi, a un certo punto, scrive il passo che ho appena citato. E’
un’annotazione al margine di uno dei capitoli, e dunque a uno degli episodi
del Lager, l’episodio dell’esame di chimica grazie cui Levi viene scelto per
lavorare nel laboratorio della I.G.
Farben riuscendo così a
sopravvivere.
Dal contesto non è del tutto comprensibile se Levi riferisca quel senso
d’irrealtà rispetto al passato
soltanto all’episodio dell’esame di chimica o a tutta la “storia” del
Lager, all’intera sua esperienza in esso.
Si tratta, in ogni caso, di un’irruzione dell’io nell’istanza del
discorso profondamente diversa da quella che abbiamo visto in Proust e in
Agostino, un’irruzione in cui l’io narrante non riesce più a trovare e a
tracciare, a intrecciare e quindi a narrare, l’unità tra l’io presente
dell’enunciazione e il passato. Un’irruzione in cui il momento presente
dell’enunciazione, detto nel testo, “oggi, questo vero oggi…”, nel
momento stesso in cui si accorge, per così dire, di sé, proprio perché viene
esplicitato, mette in dubbio l’evento passato in quanto evento reale, mettendo
quindi in dubbio il passato di quel passato. E ci indica così, d’improvviso, con
questa piccola annotazione, il momento di un’altra “fine della storia”,
diversa della “fine della storia” all’opera nelle autobiografie in cui la
storia finiva perché era prodotta da un istante in cui era già
raccolta-unita-una. La storia di Levi finisce, invece, per quanto nella
narrazione poi riprenda, perché non può più essere raccolta.
Ma Levi ci lascia in realtà lo spazio di un’alternativa, l’ambiguità,
per lo meno, di un’oscillazione, e con lui anche gli altri autori-non autori
di quelle narrazioni dei campi che, non narrazioni, noi pure leggiamo.
Formulerei così tale oscillazione: c’è storia, narrazione, memoria e ricordo
di quell’esperienza vissuta finche non c’è “consapevolezza” del fatto
che la narrazione è tale, del fatto che per essere tale essa ha bisogno di un
luogo temporale e di un io – una voce – da cui deve essere proferita. C’è,
dunque, storia inventata, narrazione, memoria e ricordo quando l’autore
dimentica di essere tale, e ci consegna la sua narrazione come se essa
provenisse da un momento d’incoscienza, da un momento di non vigilanza e,
arrischio, da un momento di sogno. E’ lo stesso Levi, d’altronde, in una
poesia che sta all’inizio della Tregua
a dirci che i racconti sono stati fatti durante la notte, in un tempo che è il
tempo del dopo, che è
contemporaneamente il tempo di un sogno.
C’è storia inventata, narrazione, memoria e ricordo nell’oblio del
tempo, del luogo e dell’io della narrazione. Ma poi, in una sorta di magico
rovesciamento, quando quest’oblio finisce e d’improvviso l’autore ricorda
d’essere tale, il tempo, il luogo e l’io della narrazione affiorano, vengono
al giorno, all’adesso dell’enunciazione, ed allora è il passato che si
voleva narrare a dissolversi nello strano oblio
di un’irrealtà. E quel passato, che pure è stato e che doveva essere
narrato, quel passato ricordato in una narrazione necessaria, ora declinante
verso l’oblio, ci mostra l’impossibilità di quella narrazione.
“Quello che oggi posso fare – era la chiosa che Lyotard aggiungeva
alla storiella hassidica – è di raccontare che non so più raccontare questa
storia”. A questa chiosa, evocando l’oggi
di Primo Levi, mi limito ad affiancarne un’altra:
“Quello che oggi – mentre racconto – so fare, è indicare
l’impossibilità di quel racconto che comunque, spinto da necessità, sto
facendo”. E’ il momento di
un’altra frattura: quella in cui l’io narrante oscilla rispetto
all’identificazione con il proprio racconto e precipita verso un passato che
certamente è stato ma che non lascia all’io la possibilità di raccoglierlo
nella trama della propria narrazione, della propria storia, della propria
identità e della propria “coscienza”.
Testi di riferimento:
P. Levi, Se
questo è un uomo, Einuadi, Torino
P. Levi, I
sommersi e i salvati, Einaudi, Torino
P. Levi, La
tregua, Einuadi, Torino
E. Wiesel, La
Notte, La Giuntina, Firenze
E. Wiesel, Célébration
hassidique, Seuil, Paris
J. Semprun, Il
grande viaggio, Einuadi, Torino
J. Semprun, La
scrittura o la vita, Guanda, Parma
E. Wiesel – J. Semprun, Tacere è impossibile, Guanda, Parma
R. Klüger, Vivere
ancora, Einaudi, Torino
G. Scholem, Le
grandi correnti della mistica ebraica, Einuadi, Torino
Ph. Lejeune, Il
patto autobiografico, Il Mulino, Bologna
H. Arendt, Vita
Activa, Bompiani, Milano
J.-F. Lyotard, Heidegger
e “gli ebrei”, Feltrinelli, Milano
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